I palloni aerostatici del Ferragosto messinese

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Fanno ormai parte di quelle immagini che il passare del tempo va sbiadendo inesorabilmente.

Li ricordano, forse con un po’ di nostalgia quei messinesi che in quegli anni  erano condotti alla festa tenuti per mano dai genitori.

Potevi vederli, la pancia ancora piena di pasta ‘ncaciata, jadduzzu ‘nfurnatu e muluni du Faru, proprio  quando la Vara, trascinata da migliaia di fedeli, percorreva, al grido di “Viva Maria”, la via Garibaldi.

Venivano lanciati dal cortile del Municipio, e si muovevano oscillando debolmente per la immancabile leggera brezza  proveniente dal mare. E tutti col naso all’in su a guardare quelle misteriose e allegre figure variopinte,  che come per magia si innalzavano nell’azzurro cielo del ferragosto messinese.

Se la memoria non mi inganna nell’aerea rassegna venivano lanciati:  una panciuta mongolfiera: doveroso omaggio ai famosi fratelli Montgolfier, una roteante stella irta di punte, un asinello dalle zampe oscillanti, un  grigio elefantino, il pescespada, gloria della cucina messinese, e poi c’era  un Peppe Nappa  a cavallo di una botte con in mano l’immancabile fiasco di vino, l’aeroplano dal quale, chissà per quale marchingegno, si staccava un bianco paracadute, la Cattedrale con tutto il campanile e le sue statue dorate, e tante altre figurazioni che non ricordo, Chiudeva l’ ascensione  la corazzata, rimembranza di  passate glorie militari.  Questa arrivata ad una certa altezza cominciava a sparacchiare da degli inoffensivi  cannoncini: timida  risposta ai fuochi d’artificio che crepitavano incessanti verso mare durante il fluire della processione.

Alla fine si vedevano, se il vento non era troppo forte,  questi  aerostati uno appresso all’altro, come messi in silente processione innalzarsi, facendosi sempre più piccoli, verso un punto indefinito dello spazio. Altrimenti si dirigevano  a scavalcare i Peloritani  verso le azzurrità del Tirreno.

Lo spettacolo era entusiasmante e ogni  lancio veniva  salutato dal “ Vadda, vadda! ” ( Guarda, guarda) degli spettatori che stavano in attesa del passaggio della Vara.

Eravamo alla fine anni quaranta, inizio anni cinquanta. Messina usciva ancora una volta martoriata dalla guerra che l’aveva profondamente provata. Si ricominciava la ricostruzione. Si  ritrovavano quelle tradizioni che erano state tanto care al cuore dei messinesi e che il conflitto mondiale aveva interrotto provocando tante distruzioni non solo materiali. Le feste di Ferragosto: la Vara,  Mata e Grifone, la Fiera … I palloni aerostatici, erano l’occasione con il  loro ritorno di far rivivere quelle tradizioni che erano il segnale più confortante per la rinascita della città.

Ma chi era l’autore di quelle magie volanti? Tali sembravano ai miei occhi di ingenuo bambino. E chi li costruiva? Erano degli interrogativi che  dovevano pur avere una risposta.

L’occasione di conoscere il mistero venne un bel giorno. Fu quando andammo a fare visita  a mio cugino

Franco Rappazzo ed al suo laboratorio, che si trovava in via Lazio nell’isolato 285, accanto alla caserma dei Vigili del fuoco. Quello era per me, il luogo dell’arcano dove  si confezionavano  quelle splendide macchine volanti,

Franco era figlio di Antonio, un vegliardo che era all’epoca ancora arzillo nella sua sahariana, retaggio di qualche guerra coloniale. Ed era proprio Antonio, figlio di Basilio, il garibaldino, fratello di mio nonno Rosario (1825 - 1905) ad avere iniziato la costruzione dei palloni nei primi anni del ‘900. Per la cronaca, un altro figlio di Basilio era Leonzio che aveva, con i figli, un negozio di bilance nella via Tommaso Cannizzaro al numero 129.

C’è da dire che oltre i palloni in quegli anni era prodotta da questi miei parenti, i  messinesi più anziani forse lo ricorderanno, la pomata Rappazzo, che aveva la proprietà miracolosa di tirar fuori anche le suppurazioni più profonde’, che altrimenti dovevano finire sotto i ferri del chirurgo.

In quegli anni questo unguento di colore rosso, costava 10 lire, e si vendeva spalmato su una striscetta di cotone che ne facilitava l’applicazione sulla parte malata. L’effetto era che tutto quanto covava di marcio, usciva fuori e la parte guariva rapidamente. La memoria della  composizione della pomata, che era un segreto di famiglia, (una volta anche mio padre la preparò rimestando gli ingredienti in un tegamino messo sul fuoco) s’è persa anche per l’arrivo degli antibiotici.

Ma torniamo ai nostri aerostati. Il laboratorio dove venivano assiemati era  una vasta stanza  con dei grandi tavoli in legno. La costruzione sicuramente seguiva i dettami del barnabita Raffaele Martini che nel 1906 aveva dato alle stampe un libro: “ L’arte di costruire i palloni di carta”, ma è anche sicuro che veniva operato un adattamento dei modelli alle varie realtà locali. E’ notorio che il lancio degli aerostati era effettuato in molti paesi durante le feste patronali. In particolare mio cugino li  preparava per poi andare a lanciarli sia nei paesi  della Calabria che in quelli della Sicilia. La sua attività durava tutto l’anno. Consisteva nella preparazione e nel lancio dei palloni. Il periodo più favorevole per queste ascensioni partiva dalla primavera fino ai prime piogge autunnali.

Ogni aerostato era costruito con della carta velina, particolarmente robusta, variamente colorata ritagliata seguendo dei modelli prefabbricati. Di questi modelli, mio cugino, ne aveva pieno un deposito; inoltre aveva pubblicato un catalogo, che aveva mandato in giro nei vari comuni, nel quale il committente aveva una vasta possibilità di scelta. Sembra che fosse il solo in tutto il meridione a preparare questi aerostati.

I vari pezzi  erano uniti con della colla di farina. Era questa l’operazione più complessa eseguita con l’ausilio di sostegni che di volta in volta erano adattati, a seconda dei modelli.

A fare questo lavoro concorrevano più persone.  Gli aerostati poi  una volta asciutti erano piegati in modo da poter essere trasportate con facilità.

In questo laboratorio sentii per la prima volta parlare di densità dell’aria variabile in funzione della temperatura, di spinta ascensionale , di principio di Archimede, di peso, di baricentro, di calorie, di combustione e combustibili e di altre diavolerie per me bambino incomprensibili. Il tutto mi venne spiegato da mio padre che mi fece osservare che era l’aria calda della fiamma a spingere il pallone e la fiamma per sua natura andava verso l’alto. Concetto peraltro, così diceva mio padre,  di aristotelica memoria. Da cui io deducevo ingenuamente che senza questo signor Aristotele, inventore dell’aria calda, i palloni non avrebbero potuto volare.

Un altro segreto di questi palloni era il sistema di non fare incendiare la carta , che doveva essere tenuta a debita distanza dal fuoco degli stoppacci. Questo si otteneva sistemandoli in maniera opportuna .  

Quando arrivava la festività, un piccolo furgoncino serviva al trasporto di tutto l’armamentario. Arrivati sul posto si sceglieva una zona adeguatamente protetta dal vento. A Messina la partenza degli aerostati era effettuata dall’interno del palazzo municipale.

Un piccolo fornello a carbone con mantice e condotta  serviva a dare  aria prima fredda e poi calda all’areostato che sostenuto da una incastellatura si gonfiava rapidamente prendendo forma. A questo punto nella parte bassa del pallone che di solito si restringeva facendo una specie di tubo si fissava il cestello, costruito in canna e fil di ferro che portava al centro degli stoppacci imbevuti di combustibile ai quali veniva dato fuoco. A volte si accendevano anche delle micce che ad una certa altezza facevano scoppiare dei petardi nei cannoncini della corazzata o mollare il paracadute dell’aeroplano.   Dopo qualche istante l’aerostato, che poteva raggiungere i tre metri d’altezza, era liberato dagli ancoraggi.. e via partiva rapidamente verso l’alto. Nel frattempo gli aiutanti ne avevano preparato  un altro, sicché il tempo che intercorreva fra due esibizioni successive era di qualche minuto.

Questa attività ebbe il massimo del fulgore negli anni ‘20 e ’30.

Il lancio dei palloni venne sospeso a metà degli anni ’50 in quanto avevano dato luogo, si diceva, cadendo, ad incendi nei boschi. Purtroppo gli incendi nei boschi sono continuati anche dopo la cessazione dei lanci.

Inoltre si diceva che avrebbero potuto ostacolare la navigazione aerea. Qualcuno, celiando, disse che la corazzata con quei cannoncini…

A parte le facile battuta forse un giorno qualcuno riprenderà quella simpatica tradizione magari usando dei sistemi di sollevamento e di navigazione più sicuri, beninteso mettendo a posto della  minacciosa corazzata  una inoffensivo ferry-boat.

Italo Rappazzo

 

ndr. Personalmente ricordo i palloni venivano lanciati dal corso Cavour dalla piazza Catalani, ed era un momento che,tutti noi ragazzi, aspettavamo con ansia.

    

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