‘A praneta (aquilone)
Solo quando, nelle scuole medie, l’occhialuta professoressa di lettere - allora ci insegnava italiano, latino, storia e geografia, adesso c’è una professoressa per ogni materia - cominciò a leggere,la poesia di Giovanni Pascoli, dopo averci zittiti con una severa guardata al di sopra degli occhiali, capii che quella che noi ragazzi chiamavamo ‘a praneta in italiano si chiamava aquilone.
La poesia era molto bella con un finale commovente. La professoressa ci diceva anche che il poeta l’aveva scritta quando ai primi del novecento faceva il professore all’Università di Messina. Era stato ispirato nel ricordo dall’atmosfera soleggiata che solo quelle belle giornate d’inizio primavera sanno dare dalle nostre parti. Questa poesia entrò nel mio bagaglio culturale come la Cavallina storna, Pianto antico, Settembre andiamo, nonché il primo canto dell’Iliade: Cantami o diva del Pelide Achille, parafrasato da noi ragazzi come il peloso Achille, con tutto quel che segue, comprese le tenzoni a colpi di riga fra Greci e Troiani nel cortile della scuola; e tante altre cose, indimenticabili come la declinazioni dei verbi in latino. E si perché a quei tempi si mandavano a memoria le poesie e anche il resto, come ad esempio la tabelline, digerite con il relativo coro, in quanto, così ci dicevano continuamente citando Dante : …. Non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso. E forse avevano ragione loro e Dante.
Torniamo alla nostra praneta, la cui etimologia ricorda vagamente la parola pianeta, che per noi ragazzi rappresentava il massimo della goduria, accoppiando a quelle che erano le conoscenze tecnologiche un spunto di magica fantasia. Del resto cosa c’era di più bello che vedere naso in su, quel rettangolo colorato librarsi nell’azzurro del cielo, messaggero di quelli che erano i sogni frutto della nostra beata innocenza; e soprattutto vedere per aria qualcosa di pacifico dopo che durante la guerra avevamo sentito rombare sulle nostre teste, preannunziato dal lugubre ululato delle sirene, altre macchine volanti che non ci avevano risparmiato i loro fragorosi regali.
Cosa era necessario avere per costruire questo fragile uccello? che fra le altre cose aveva reso famoso un certo Beniamino Franklin, così come mi aveva raccontato il mio papà. Un americano che aveva così studiato la natura del fulmine, la cui scarica elettrica aveva fatto arroventare una chiave messa in serie al filo, che doveva essere di metallo; e poi come s’era fidato, che noi quando c’era un temporale di quelli buoni, con tutte le sue fragorose pirotecnie, ci rifugiavamo ragazzini tremebondi sotto la protettrice ala materna, Mah!
Allora per prima cosa ci voleva della carta velina colorata non troppo sottile - una volta s’era provata la carta di giornale ed era stato un mezzo fallimento - in cartoleria vendevano quella adatta all’uopo, costava poche lire, che noi ragazzi racimolavamo come regalia nei giorni di festa o come cresta di qualche commissione nel vicino negozio di don Gino e poi una canna, della farina, ed un ghiommarozzo ( gomitolo) di spago: quello sottile e robusto, del giusto peso.
Si poneva il quadrato di carta su un piano; la canna si spaccava e si lavorava con il coltello in modo da ottenerne delle stecche sottili, una della lunghezza di una diagonale del quadrato e l’altra un po’ più lunga ai cui capi si fissava uno spago in maniera tale da fare una sorta di arco. Con la canna bisognava stare attenti, almeno così si diceva, infatti se ci si feriva si rischiava un’infezione. Le due canne venivano posate perpendicolarmente in modo chi i loro vertici coincidessero con gli spigoli del quadrato. Precedentemente s’era fatta la colla di farina, che era stata abilmente sottratta dalla dispensa della mamma, approfittando di un suo attimo di distrazione.
Si miscelava la farina con l’acqua, nella quantità giusta, e poi si metteva sul fuoco del fornello a carbone - a quei tempi ancora il gas in bombola pibigas doveva arrivare; dopo un po’ di bollitura veniva fuori una colla formidabile alla quale io aggiungevo delle gocce di insetticida ddt, all’epoca ancora non messo al bando, che aveva lo scopo di impedire alle girovaganti moschitte di deporre uova trasformando dopo qualche giorno i residui di colla in un asilo infantile di allegri moscerini.
Si passava quindi a fissare con dei rettangolini di carta incollata le stecche al quadrato di carta velina. Quindi si costruivano le tre code due messe alle estremità dell’archetto e una, la più lunga, all’altra estremità di poppa il tutto per dare stabilità al costrutto. Queste code potevano essere fatte anche a catenella, ma il lavoro risultava più lungo e non valeva la pena perdere del tempo quando c’era l’ansia di vedere volare quella nostra creatura.
All’incrocio fra le due canne si praticavano due fori a cavallo: servivano per far passare un filo la cui altra estremità veniva fissata in coda. A questo filo veniva fissato un capo del ghiommarozzo di spago.
Dopo che ci si era assicurati che la colla avesse fatto presa. Si partiva tutti in allegra comitiva verso il campo dietro casa. Se c’è una cosa che a Messina non manca mai è il vento, che è si accoppia per tradizione al pesce stocco ed ad un’altra cosa che non nomino per amor di patria.
Quindi si prendeva posizione: un primo bambino, spalle al vento, teneva ‘a praneta, il pilota, che era quello che aveva messo i materiali per la costruzione, svolgeva lo spago più rapidamente possibile facendo una corsa in retro marcia, e badando bene a non ruzzolare per terra incespicando nell’immancabile mazzacane. Infatti doveva essere lui a tenere il filo regolando la quota alla quale doveva portarsi la praneta.
L’aquilone veniva liberato, allora per magia si sollevava da terra sorretto dal vento e cominciava a guadagnare in altezza fra le esclamazioni giocose di tutta la comitiva. E se era ben costruito si teneva diritto verso l’alto, a parecchi metri d’altezza: una meraviglia a vedersi.
Però a volte il bel gioco durava poco, forse Eolo, di omerica rimembranza, invidioso di tanta felicità ti mandava un mulinello di vento, che faceva roteare come impazzita la povera praneta. C’era allora da recuperare rapidamente il filo riavvolgendo il ghiommarozzo. Ma quel perfido non se la dava per vinta e cosi quella puntava decisamente verso il basso andandosi a fracassare a terra come un esperimento della NASA mal riuscito, fra la cocente delusione dei convenuti.
Ma se c’era rimasto ancora qualche foglio di carta il lancio doveva essere ripetuto, recuperando il recuperabile. Nella certezza che ci sarebbe stata qualche volta che Il dispettoso Eolo aveva qualcos’altro da fare e ci avrebbe mandato, mosso da pietà, qualcuna delle sue delicate figliole; e il più delle volte il ritentare era coronato da successo.
Una pervicacia infantile che tutto sommato era una lezione di vita.
Italo Rappazzo